Miroslav Tarzan Tichý


Fotografie sovraesposte o sottoesposte, sfocate, sviluppate da negativi graffiati su carta strappata a mano, sporche di polvere e di ogni altro genere di residuo di una casa fatiscente, macchiate e mangiate dai topi.
Sono le opere di Miroslav Tichý che, a chi gli faceva notare le macchie di bromuro sulle foto, rispondeva:
“Un errore, un errore, ecco cosa produce poesia, cosa dà qualità pittorica. La filosofia è qualcosa di astratto, ma la fotografia è concreta, una percezione. L'occhio, quello che si vede. Prima o poi dovreste avere una pessima macchina fotografica. Se volete essere famosi, dovete fare qualcosa male come nessun altro al mondo! Niente di piacevole, bello ed elaborato; a nessuno interessa questo”. E la fama è giunta per l'ormai più che ottantenne fotografo e pittore ceco nato a Nẻtčice, un piccolo villaggio in Moravia, il 20 novembre 1926, unico figlio del sarto Antonìn Tichý e Žofie Adamcová.


Abbandonò l'Accademia di Belle Arti di Praga dopo l'avvento del comunismo e della sua politica di repressione, subita da Tichý non solo all'interno dell'Accademia - che lasciò non appena le modelle furono sostituite da lavoratori in abiti da lavoro! – ma anche nella vita privata, con ricoveri forzati in ospedali psichiatrici, voluti da un sistema desideroso di “normalizzare” chiunque intendesse ignorare le convenzioni convenute.



É stata, la sua, una lotta contro ogni imposizione e negli anni '60 iniziò a trascurare il suo aspetto: smise di tagliare barba e capelli e indossò un solo abito nero, fino a ridurlo a brandelli. Era l'esatto opposto dell'ideale del Nuovo Uomo Socialista e agli occhi dei suoi concittadini appariva come un eccentrico e un perdente. Fu comunque forte e combattivo, diceva:
“Sono come un Samurai, il mio solo scopo è quello di distruggere i miei nemici.”


Ma chi erano i suoi nemici? “Finché i comunisti furono al potere fui sicuro di trascorrere quanto più tempo possibile in prigione, sono stato in prigione per otto anni. Accadde così: fui condannato a dodici mesi e mia madre, temendo che alla fine mi avrebbero ucciso, persuase gli avvocati nel tentativo di farmi scarcerare. E gli avvocati come agirono? Mi fecero esaminare dagli psichiatri.”E fu sempre a causa del Sistema se abbandonò la pittura: il 27 marzo 1972 le sue opere furono scagliate sulla strada dagli addetti allo sgombero della soffitta che aveva preso in affitto e che era il suo studio. Da quel momento Miroslav si dedicò alla fotografia e le strade di Kijov divennero il suo nuovo atelier.



“La gente mi domanda, cosa sei tu Mr Tichý? Un pittore, uno scultore, o uno scrittore? Io rispondo: sai chi sono? Io sono Tarzan in pensione.”
Il disordine in casa Tichý sommergeva gli ospiti: montagne di libri, illustrazioni, pitture, fotografie, arnesi, piatti sporchi, disegni, carte lungo tutto il corridoio, sul tavolo e un po' ovunque. I fili elettrici pendevano liberi nell'aria...
“Io sono un profeta della decadenza e un pioniere del caos, perché solo dal caos è possibile che emerga qualcosa di nuovo.”




Il meccanismo di repressione nei suoi confronti rappresentava per lui un Teatro dell'Assurdo. In un report d'igiene presentato alla corte socialista venne accusato di indossare abiti pieni di blatte e pidocchi. Quando il giudice gli chiese di dire qualcosa in suo favore rispose:
“Chiamateli a testimoniare”. Passò dalla pittura alla fotografia e quando gliene chiesero le ragioni rispose:
“I dipinti sono stati dipinti, i disegni sono stati disegnati. Cosa supponevo di fare? Ho cercato un nuovo strumento. Con l'aiuto della fotografia vedevo ogni cosa sotto una nuova luce. Un mondo nuovo.”


La sua prima macchina fotografica fu un vecchio banco ottico portatile ereditato dal padre. Non numerava né firmava le foto. Comprava i suoi rullini, la carta fotografica e i prodotti chimici in un negozio vicino la chiesa della cittadina. Per risparmiare denaro acquistava spesso pellicole da 60mm, ritagliandole poi in due strisce in camera oscura (una camera oscura costruita da lui nel cortile di casa). Per le sue stampe utilizzava qualunque superficie piatta: pezzi di legno, linoleum, plexiglas, cellophane, pezzi di secchi di plastica.



Portava una macchina fotografica sotto il maglione, una BaKelite economica made in Soviet Union, alla quale modificò le lenti. Quando qualcosa lo colpiva la tirava fuori dal maglione e scattava senza guardare nel mirino:
“Non decido niente. È il mio cammino a determinare quello che fotografo. Ogni cosa è decisa dal movimento rotatorio del mondo … dal Fato.”




Trovava i soggetti delle sue fotografie nelle stazioni degli autobus, nei parchi, nelle piazze:
“Io sono un osservatore il più possibile attento. Non dell'essere umano! Di qualsiasi cosa! ...Ogni cosa, anche le frattaglie, ogni atomo! Ho da esplorare ogni atomo, perché sono un atomista!” 
Soggetto principale delle sue fotografie è il corpo femminile. A chi gli chiedeva del suo interesse per le donne diceva: 
“Una donna, per me, è un tema. Non mi interessa nient'altro. Non inseguo le donne. Anche quando vedo una donna che mi piace – e magari potrei tentare un contatto – mi rendo conto di non essere realmente interessato. Invece prendo una matita e la disegno. L'erotico è comunque solo un sogno. Il mondo è solo un'illusione, la nostra illusione”.




Sempre misterioso circa i temi da lui trattati:
“Vedo forme e le converto in matematica. Si tratta di una composizione di elementi. Tutto il mondo è composto da numeri. Qualcuno mi dica qual è il numero più grande! E quale il più piccolo? Ed è solo in quell'infinito miliardo di elementi che qualcosa può essere composta. Ciò accade di per sé, al di là di me. Dopotutto, io semplicemente non esisto, di fatto. Io sono un mero strumento, uno strumento di conoscenza, o non so che”.




“Tutti dicono vita, vita, ma nessuno sa cosa sia la vita. Tu sai cos'è la vita? Definiscila!”
Il suo obiettivo 300-500 mm era un agglomerato di lenti di occhiali da vista trovati e plexiglas: 
“Taglio con un coltello la lente di plexiglas e poi la levigo con carta vetrata”. 
Dopo averle levigate le lucidava con dentifricio mescolato a cenere di sigaretta. Per il corpo del teleobiettivo utilizzava tubi di cartone o tubi di scarico dentro i quali inseriva diverse lenti, fissandole con colla o asfalto. Utilizzava anche telescopi per bambini, adattandoli alla sua macchina fotografica.





“Arte! Cos'è l'arte? L'arte è una fantasia, un'idea. Schopenhauer: Die Welt als Wille und Vorstellung. Il mondo come volontà e idea/rappresentazione! Un'idea è un sogno. Quando scatto una fotografia non penso a niente. E non prendo seriamente niente di ciò che sento o penso. È come giocare a carte, un gioco!”




Utilizzava la matita per enfatizzare i contorni dei soggetti fotografati e talvolta la rielaborazione manuale poteva consistere nel dipingere su ampie zone della stampa.



“Quando fotografi il movimento è la cosa più importante. E la composizione. È il contrasto a fare la fotografia, luce ed ombra, ecco la composizione. La fotografia è dipinta con la luce".