Jaques Derrida: " Il y a là cendre "

Tradotto in italiano con il Titolo Ciò che resta del fuoco il testo di Derrida è largamente recensito e commentato nel web. Quindi Parent(hèse) evita di proporvi l'ennesima sinossi impossibile (meglio leggere il libro che farselo raccontare) o "ancora qualche parola su..." e preferisce offrire, a chi non ha ancora letto l'interessantissimo monologo a più lingue di uno tra i più importanti filosofi del nostro tempo, l'elenco delle domande presenti nel piccolo polylogue:
"...la cenere non è più qui. Ma è mai stata qui? Chi è cenere? Dov'è? Dove sta correndo a quest'ora? Ma perché avreste dato al fuoco? Forse per serbare, nascosto, o non piuttosto per perdere lasciando scorgere il grigio del lutto, quel mezzo-lutto che non dura se non il tempo di una cenere? Perché là cenere? Luogo di incinerazione ma di che cosa, di chi? Dove? Qui? Là? In che luogo si situano le parole sulla pagina? Là, cenere vuol dire la differenza tra ciò che resta e ciò che è: ce la fa a dirla? La cenere come dimora dell'essere? Abbandonata alla sua solitudine, testimone di chi? Di che cosa? Di questa cosa di cui non si sa nulla, come non si sa quale passato porti ancora quella grigia polvere di parole né quale sostanza si sia lì consumata prima di spegnersi in lei (lo sapete quanti tipi di cenere distinguono i naturalisti? e di quale "legno" certe ceneri talvolta schiudano un desiderio?), di una cosa siffatta sarà ancora possibile dire che essa serba una identità di cenere? Ma là, in quel caso là? quando la cenere tutta quanta in frase non ha altra consistenza che la sua sintassi e non ha altro corpo se non dentro il suo lessico? Le parole, insomma, sono calde o fredde? E che ne dite della forma grigia di quelle lettere? Se in verità fosse sicuro del suo sapere, perché avrebbe avuto questo desiderio di scrivere e soprattutto di pubblicare una frase tutta così attraversata dall'indeterminazione? Perché porre in deriva e clandestinare in siffatta maniera una proposizione così leggibile? Tramite il ritorno paziente, ostinato, ironico dell'esegesi che non porta a nulla e che gli ingenui troverebbero indecente, staremmo forse modellando l'urna di un linguaggio per questa frase di cenere, che lui, per quanto lo riguarda, ha abbandonato al suo destino e alle sue probabilità, virtù di autodistruzione che fa fuoco da sola dritto al cuore? Come accettare di lavorare per sua signoria il lutto? E come non accettare? Ma è quello che è stato fatto, no? Fra le due versioni, dov'è la cenere dell'altra? Qui o là? Ma essa non saprebbe rendere o dare nient'altro che polveri di fuoco, non lascia apparire di sé, della sua origine o della sua destinazione, nient'altro che una pista di sabbia, facendovi nel contempo da anestetico: sabbia rovente o no? sabbia rovente o traccia? Ma in che modo una parola, che è impropria anche solo a nominare la cenere al posto del ricordo di qualche altra cosa, in che modo potrebbe, interrompendo la sua funzione di rinvio, presentarsi essa stessa, la parola, in quanto cenere, simile ad essa, ad essa comparabile fino all'allucinazione? Ma che cos'è dunque una parola per potersi consumare fino al proprio supporto (nastro di voce o di carta, autodistruzione dell'emissione impossibile una volta dato l'ordine), sino ad assimilarselo senza resto visibile?"



" Il y a là cendre "

" Vi è là cenere"



Ciò che resta del fuoco, SE, Milano, 2000

traduzione di Stefano Agosti, euro 11,00